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Arte Divertente

Avete il senso dell’umorismo?

-Parte III-

Eccoci alla terza parte che vi racconta l’arte e gli artisti contemporanei più ironici, quelli che ci hanno strappato un sorriso ma anche portati a riflettere su tematiche serie e attuali.

Vediamo quali sono!

Come abbiamo visto, nel corso del tempo molti artisti hanno riflettuto sul diritto di rivendicare l’idea originale di un’opera d’arte e si sono interrogati sull’aura che circonda il mito dell’artista.

Anche Gavin Turk (Inghilterra 1967) – esponente dei YBA – tratta questo tema riflettendo sul concetto di autenticità e paternità della creazione artistica e in molti suoi lavori riprende opere iconiche di grandi artisti del passato esplorando il potere simbolico delle opere d’arte e l’aura quasi sacra che le circonda.

Ottiene un’immediata notorietà nel 1991 quando – in occasione della tesi finale al Royal College of Art – propone “Cave”, installazione in cui in uno spazio completamente bianco una semplice placca blu commemora la sua presenza: “Gavin Turk, Sculptor, worked here, 1989-1991”.

L’ispirazione ironica viene dalle targhe commemorative poste sui muri dei palazzi cittadini ed è proprio grazie a quest’idea divertente che Turk viene notato da Charles Saatchi e invitato a esporre con i Young British Artists, entrando così a far parte del gruppo dei celebri artisti britannici emersi alla fine degli anni ’80.

Avete mai sentito dire “questo lo potrei fare anche io?”, ecco: lui l’ha fatto!

La sua personale ricerca lo porta a rielaborare in chiave giocosa opere come – per esempio – l’action painting di Jackson Pollock, le serigrafie di Andy Warhol, i ricami di Alighiero e Boetti, Piero Manzoni, Salvador Dalì, Enrico Castellani, così come “La Fine Di Dio” di Lucio Fontana.

Il sarcasmo non è solo concettuale o autoreferenziale, ma ironizza anche sulle dinamiche del mercato dell’arte contemporanea che impone alcuni “must have”, nomi irrinunciabili in ogni collezione che si rispetti.

“È l’opera d’arte che fa l’artista o è l’artista che rende famosa l’opera d’arte?”.

Turk si diverte con il concetto della possibilità di riprodurre reinterpretando l’idea che sta alla base della creazione artistica.

In queste rivisitazioni l’artista inglese lascia spesso una sorta di riconoscimento personale che può essere il suo nome ricamato negli arazzi, lui stesso come soggetto nelle serigrafie o le sue iniziali nei concetti spaziali.

Dall’interpretazione di queste opere si può dedurre come Gavin Turk abbia non solo la piena padronanza delle più diverse tecniche artistiche come scultura, pittura, fotografia, ma anche come sia evidente la sua capacità di assimilazione e identificazione con gli artisti più diversi.

Gavin Turk, “Land and Sky”, 2012

Embroidery on canvas

Gavin Turk, “Refuse”, 2012

Bronzo dipinto

 

Sono impegnati in installazioni ironiche anche Micheal Elmgreen (Danimarca 1961) e Ingar Dragset (Norvegia 1969), Elmgreen and Dragset – sodalizio artistico nato nel 1995 i cui lavori si collocano a metà tra arte e architettura e giocano sull’effetto straniante della ricontestualizzazione di oggetti quotidiani e sulle riflessioni che possono sorgere da connubi inediti e spiazzanti.

Le loro “Powerless Structures” sono installazioni che ribaltano le regole dello spazio e della fisica con il chiaro intento ironico e polemico di creare contesti paradossali; spesso i loro interventi di scultura pubblica ricontestualizzano anche il luogo in cui l’opera viene collocata, come nel caso di “Short Cut” (2003 – in collaborazione con Fondazione Nicola Trussardi e Massimo de Carlo), installazione dall’effetto decisamente straniante che vede protagonista una Fiat Uno con roulotte al traino. Il turismo di massa e gli stereotipi italiani sono serviti: la targa di Napoli, la mappa di Rimini e l’utilitaria hanno il sapore delle vacanze nazional-popolari anni ‘80.

Uno scandalo? Forse. Ma le signore del “salotto buono” milanese li avranno di sicuro perdonati visto che nel 2005 hanno realizzato una boutique di Prada completa di accessori – “Prada Marfa” – nel bel mezzo del deserto del Chihuahua, per placare la sete di shopping.

L’umorismo di Elmgreen and Dragset li ha portati a omaggiare l’anniversario di nascita di Vincent Van Gogh (30 marzo 1853) con una piscina di 4 tonnellate a forma di orecchio, “Van Gogh’s Ear”, installazione collocata nel 2016 a mezz’aria all’ingresso del Rockefeller Center di New York.

Elmgreen and Dragset, “Short Cut”, 2003

Installazione

Elmgreen and Dragset, “Van Gogh’s Ear”, 2016

Installazione

 

Un’altra collaborazione artistica che negli ultimi 20 anni ha sviluppato un corpus di lavori sperimentali e molto variegato è formata da Jennifer Allora (Porto Rico 1974) e Guillermo Calzadilla (Cuba 1971), Allora & Calzadilla – che nelle loro opere spaziano tra diversi media come la scultura, la fotografia, l’installazione, i video e la performance.

Il tono scanzonato e allegro non deve ingannare, perché il duo è fortemente impegnato sul fronte storico e politico affrontando tematiche socio-culturali che riflettono e indagano le fratture interne alla società odierna.

Fin dal 1995, anno di nascita del loro sodalizio, si sono concentrati sull’esplorazione degli aspetti sociali e politici del vivere contemporaneo. Giocando sui controsensi della società occidentale le loro sculture, performance e installazioni creano situazioni e immagini spiazzanti, riconoscibili ma nello stesso tempo stranianti.

L’intento ironico e polemico insito nelle loro opere li ha portati alla creazione di sculture all’apparenza leggere e divertenti come “Hope Hippo” (2005), ippopotamo a grandezza naturale che vuole essere una rappresentazione critica e una presa in giro dei monumenti militari equestri.

Nel 2011 hanno rappresentato l’America in occasione della 54ª Biennale di Venezia, mettendo in scena una riflessione sulle ossessioni della super potenza mondiale, tra contraddizioni e falsi miti.

Accoglieva il pubblico del padiglione “Track and Field”, carro armato rovesciato e trasformato in tapis roulant dove a intervalli regolari si allenava un vero atleta, tra un rumore stridente di cingoli e ferraglia, inquietante mix di primati sportivi e guerre – non sempre – vinte.

Il sarcasmo di Allora & Calzadilla fa capolino non solo nelle grandi installazioni ma anche in opere dalle dimensioni più contenute, come “Bandage”( 2011), fedele riproduzione in metallo di un banale cerotto.

Allora & Calzadilla, “Hope Hippo”, 2005

Installazione

Allora & Calzadilla, “Track and Field”, 2011

Installazione

 

Proseguendo con le collaborazioni artistiche, in Italia sono Bertozzi e Casoni a portare l’ironia nel quotidiano giocando con la messa in scena delle – cattive – abitudini della società attuale tra consumismo, sprechi e decadenza.

Utilizzando unicamente la ceramica, lavorata con una maestria eccezionale, Giampaolo Bertozzi (Borgo Tossignano 1957) e Stefano Dal Monte Casoni (Lugo 1961) raggiungono risultati impressionanti mostrando le potenzialità di un medium a volte ritenuto – a torto – di seconda categoria.

La collaborazione avviata nel 1980 diventa a partire dagli anni ’90 più concettuale, per poi aprirsi a sperimentazioni tecniche verso una resa sempre più oggettiva e realistica degli oggetti prescelti.

Nei loro lavori l’iperrealismo che inganna il senso della vista e il virtuosismo tecnico-artigianale della loro arte prendono forma in opere concettuali e in accostamenti coloratissimi, ironici e spesso spiazzanti.

Oltre al tema del memento mori e della vanitas, Bertozzi e Casoni si dedicano anche alla rappresentazione oggettiva del presente; tutto ciò che è effimero e deperibile diventa icona e opera d’arte, metafora della condizione umana: confezioni di detersivo, vettovaglie e piatti sporchi sono una critica al consumismo del vivere contemporaneo mentre gli armadietti per medicinali, simboli di aiuto ma anche di dolore e malattia sono stracolmi di sigarette, teschi e oggetti ammuffiti.

Gli istanti di vita quotidiana sono cristallizzati per sempre in una “epopea del trash” – come loro stessi l’hanno definita – che immortala l’ossessiva accumulazione dell’odierna società dei consumi verso prodotti usa e getta, futili e superflui.

Sono attualmente in mostra fino al 20 novembre al MARCA di Catanzaro, con la personale “Bertozzi & Casoni. Terra!”.

Bertozzi & Casoni, “Avanzi”, 2001

Ceramica policroma

Bertozzi & Casoni, “Brillo Box”, 2008

Ceramica policroma

 

Ma uno dei più grandi rappresentanti dell’iperrealismo in scultura è stato Duane Hanson (USA 1925 – 1996), artista che più di tutti ha saputo ritrarre nei minimi dettagli tutti i difetti e le caratteristiche – talvolta buffe – della cultura americana.

Il suo “realismo dell’anonimato”, come è stato definito, diverte e stupisce per la minuziosità e la precisione dei dettagli che vanno a creare vere e proprie illusioni scultoree.

L’artista americano ha esordito affrontando tematiche sociali spesso trascurate dall’arte di quegli anni indagando sulle condizioni degli emarginati come i senzatetto e le minoranze etniche, impegno testimoniato da opere di denuncia come “Trash” (1967) o “Race riot” (1968), gruppo scultoreo che descrive la brutalità e i soprusi della polizia verso la minoranza di colore.

È solo agli inizi degli anni ’70 che Hanson inizia a concentrarsi sulla classe media americana, ricreando nei minimi dettagli persone a grandezza naturale che, grazie alla resa iperrealistica, suscitano sorpresa e divertimento.

Imbianchini, turisti, anziani, cameriere: la vera protagonista delle opere di Hanson è una folla banale ma spiazzante per la cura nei particolari – dai vestiti ai nei sulla pelle – inquietante per la somiglianza con persone reali che potremmo incontrare per strada appena girato l’angolo.

Impossibile non sorridere di fronte alla casalinga di mezza età in tenuta da casa accompagnata dal barboncino che dorme ai suoi piedi, oppure di fronte alla coppia di turisti americani con occhiali da sole, ciabatte, macchina fotografica e naso all’insù.

Proprio quest’anno la sua installazione “Lunchbreak” del 1989 è stata riproposta nella sezione Unlimited ad Art Basel Basilea. Gli operai edili riflettono perfettamente un istante reale e sembrano riposarsi dopo l’installazione di qualche stand in fiera.

Duane Hanson, “Tourist II”, 1988

Tecnica mista

Duane Hanson, “Lunchbreak”, 1989

Tecnica mista

 

Altro maestro dell’iperrealismo, anche Ron Mueck (Melbourne 1958) crea sculture curate nei minimi dettagli che rappresentano esseri umani fedelmente riprodotti ma dalle dimensioni alterate.

Spesso giganti, i suoi personaggi mettono in scena i sentimenti e la fragilità umana, amplificata a tal punto da provocare nello spettatore un senso di inquietudine.

Mueck, che in passato ha lavorato per il cinema e la televisione, ha esordito nel mondo dell’arte nel 1997 con “Dead Man”, opera creata in seguito della morte di suo padre: impossibile restare indifferenti di fronte alla fedele riproduzione in scala del piccolo corpo esangue.

La consacrazione definitiva avviene nel 2001 in occasione della 49ª Biennale di Venezia, quando negli spazi dell’Arsenale espone “Boy” (1999), un bambino alto 5 metri impaurito e rannicchiato sul pavimento.

Nelle sue opere mistero, paura e meraviglia sono legati a doppio filo e chi le osserva ha la sensazione di essere catapultato in un mondo fiabesco tra teschi, orchi giganti ma dall’aria vagamente offesa e faccioni dormienti un po’ imbronciati. Sembra quasi di sentirli respirare, come sembra di poter ascoltare i pettegolezzi sussurrati dalle due donne anziane nell’opera “Two Women” 2005, dure nello sguardo e critiche nell’atteggiamento.

Ron Mueck, “Boy”, 1999

Tecnica Mista

Ron Mueck, “Untitled (Big Man)”, 2000

Resina poliestere pigmentata su fibra di vetro

 

Continuando sul filone della scultura, non si può non nominare l’artista italiana Paola Pivi (Milano 1971), da sempre impegnata sul fronte dei problemi ambientali che utilizza medium e tecniche artistiche differenti spaziando dalla scultura all’installazione, dalla fotografia a performance che spesso includono animali vivi.

Questi ultimi, fuori dal loro contesto naturale, appaiono come una visione onirica provocando un effetto straniante sull’osservatore, disorientato da un’immagine reale ma intrisa di elementi fantastici.

Le immagini sospese create dall’artista giocano sul non senso, come l’asino in barca in mezzo al mare o il leopardo che cammina in mezzo a tazze di cappuccino.

Di sicuro la conoscete per i suoi famosi orsi con piume colorate, opere che hanno una componente ludica molto pronunciata, animali fosforescenti e giocosi che ci ricordano in modo leggero e scherzoso il grave problema dei cambiamenti climatici che sta costringendo molte specie ad adattarsi alle mutate condizioni ambientali.

Ironicamente gli orsi fluo della Pivi corrono ai ripari rispondendo al pericolo d’estinzione con un pratico cambio d’abito: alla folta pelliccia sostituiscono un leggero piumaggio, molto più adatto alle alte temperature.

I rimandi ai peluche rendono le opere di Paola Pivi ironiche e simili ai giochi per bambini, lasciando solo un’eco lontana della dimensione drammatica degli animali impagliati.

Paola Pivi, “Senza titolo”, 2003

Stampa fotografica montata su lastra DIBOND

Paola Pivi, “Ma’am”, 2016

Installazione

 

La dimensione ludica è parte integrante anche del lavoro di Takashi Murakami (Tokyo 1962), artista giapponese che ha delineato e di fatto fondato il movimento artistico postmoderno Superflat, caratterizzato da colori vivaci e da figure prive di prospettiva derivate dall’arte grafica.

Fortemente influenzato dai manga, dalla fantascienza, ma anche dalla pittura tradizionale giapponese, Murakami crea personaggi buffi e colorati, funghi sorridenti e mostri dai denti aguzzi diventati icone e simboli di temi complessi e delicati, che dietro l’apparente spensieratezza celano una denuncia contro l’emarginazione della subcultura otaku.

Famosa la sua collaborazione con Marc Jacobs per la casa di moda Louis Vuitton, per la quale a partire dal 2002 ha reinventato alcune tra le borse più iconiche della maison francese, portando una ventata di spensieratezza nel mondo della moda di lusso tra ciliegie, occhioni dolci e coloratissimi fiori.

Dal 2011, a seguito del terribile terremoto di Tohoku e della crisi nucleare di Fukushima, l’artista inizia a esplorare anche l’impatto che le catastrofi naturali hanno sulla civiltà e sulla cultura.

Terrore e gioia, aspetti ricorrenti nella cultura orientale, vengono proposti da Murakami in luminosi fiori sorridenti in contrasto a mucchi di teschi – vivacità di una vita preziosa e fragile contrapposta alla crudeltà del tempo che passa.

Takashi Murakami rilegge in chiave pop l’impatto della cultura occidentale sulla civiltà nipponica e il suo approccio all’arte supera i confini tra fantasia, moda, tecnologia e storia, dimostrando che tutte loro sono strettamente legate.

Takashi Murakami, “Flowers in Heaven”, 2010

Litografia

Takashi Murakami, “Skulls MCBST”, 2011

Litografia

 

In un periodo storico non facile come quello che stiamo vivendo prendere la vita – e l’arte contemporanea – con un pizzico di ironia aiuta a sdrammatizzare e a dare quel tocco di leggerezza che non guasta mai..

…. Smile!

P.S. Ci sono ancora molti artisti interessanti di cui potrei parlarvi, se voleste approfondire non esitate a contattarmi.

 

Le sfumature dell’arcobaleno dell’arte sono infinite: scegliete la vostra preferita!

 

Avete il senso dell’umorismo?

Maurizio Cattelan image

 

-Parte II-

Se state leggendo questo articolo significa che vi piace l’arte ironica e che vi siete divertiti leggendo la prima parte che abbiamo dedicato a questo particolare aspetto dell’arte contemporanea.

Come abbiamo visto, a partire dalla Pop Art divertimento e satira iniziano ad avere un ruolo maggiore nel mondo dell’arte contemporanea. Sempre più tagliente, l’ironia non risparmia niente e nessuno e diventa un efficace strumento in grado di veicolare in modo più incisivo il messaggio dell’autore.

Lo sa bene Banksy (Bristol 1974), artista e writer tra i maggiori esponenti della Street Art, che ha fatto dell’ironia e della clandestinità i suoi segni distintivi. L’identità segreta è una scelta morale ed estetica che rimarca la sua non-appartenenza al sistema e un ulteriore modo di combatterlo: l’utilizzo degli stencil, preventivamente preparati in studio, gli permette una rapida realizzazione che ben si adatta alle sue improvvise incursioni notturne in spazi pubblici senza essere mai stato scoperto, trucco che fa parte del suo “scherzo”.

La comunicazione diretta e il ricorso a un linguaggio semplice e incisivo raggiungono e interagiscono con un numero molto elevato di persone appartenenti a ceti ed età differenti.

La sua è un’arte di protesta verso la politica attuale, la cultura, le questioni etiche e sociali, che si esprime tramite una satira tagliente: spesso al limite del pudore, le sue opere affrontano argomenti “scomodi” e spesso taciuti, come nel caso di “Snorting Copper”, graffito apparso su un muro di Londra nel 2006 che raffigura un poliziotto intento a farsi una riga di cocaina.

In altre occasioni Banksy si fa portavoce della controcultura e guida una rivolta contro le grandi multinazionali che gestiscono e governano gran parte del pianeta con l’unico scopo di arricchirsi a discapito dei più deboli.

L’artista di Bristol rimaneggia immagini pubblicitarie e icone del nostro tempo come atto di denuncia sociale, spesso attingendo dall’estetica punk inglese degli anni ’70, come nel caso di opere che riprendono in chiave ironica e dissacratoria i ritratti della Regina Elisabetta o di Winston Churchill.

Il suo impegno politico, sempre molto forte, lo ha portato a prendere posizione rispetto alla questione palestinese e nel 2005 ha realizzato alcuni stencil sul muro divisorio in Cisgiordania. La sua presenza in un territorio così oppresso e delicato è culminata con l’apertura nel 2017 del Walled Off Hotel in Palestina, albergo che offre una visuale proprio verso il Muro.

I suoi interventi non hanno risparmiato nemmeno le opere dei grandi maestri del passato e la denuncia contro il consumismo fa la sua apparizione in “Ponte Giapponese” (1899), una delle opere più famose di Claude Monet: l’incanto del giardino di Giverny è turbato da carrelli della spesa abbandonati e coni segnaletici catarifrangenti (“Show Me the Monet”, 2005).

A trovare spazio nelle sue opere non solo personaggi e opere celebri ma anche animali – spesso altamente simbolici – come scimmie e ratti: questi ultimi sono tra i suoi soggetti preferiti, in quanto sono animali che vivono nell’ombra, rifiutati dalla società e quindi perfetta metafora che rappresenta gli “esclusi”.

Banksy ha saputo raccogliere e rielaborare il testimone lasciato da Keith Haring, al quale fa riferimenti chiari e diretti specie in “Choose your Weapon” (2005), opera che allude ai “Barking Dogs” dell’artista americano.

Non dobbiamo dimenticarci il grande colpo di scena in occasione dell’asta di Sotheby’s Londra nell’ottobre 2018, quando “Girl with Balloon” (2006) si è autodistrutta sotto gli occhi increduli dei presenti diventando la prima opera in assoluto realizzata durante un’asta d’arte. Se pensate che chi l’ha acquistata a 1.042.000 £ (interessi inclusi) si sia trovato con niente in mano vi sbagliate, perché sono sicura che al momento di riproporla sul mercato l’opera avrà acquisito un nuovo fascino e un valore straordinario.

L’ultimo intervento di Banksy che ha fatto parlare molto è stato la sua comparsa a Venezia durante l’apertura della Biennale nelle vesti di un venditore ambulante, in forte polemica con la questione dell’ingombrante e fastidiosa presenza delle navi da crociera, apparizione seguita dal murales nel quartiere Dorsoduro.

A proposito di Venezia, quest’anno la Serenissima ha rischiato di non essere inclusa nell’elenco del Patrimonio Unesco proprio a causa del turismo fuori controllo e del problema delle grandi navi che continuano a solcare le acque della laguna; tra l’altro lo scorso 2 giugno una nave da crociera si è scontrata contro un battello turistico riaccendendo le polemiche.

L’umorismo di Banksy ha centrato il problema, anticipando l’episodio quasi come un profeta.

Banksy, “Snorting Copper”
Banksy, “Snorting Copper”, Londra 2006
Graffito
Banksy Barcode
Banksy, “Barcode”, 2004
Serigrafia
Banksy, Happy Choppers
Banksy, “Happy Choppers”, 2003
Serigrafia

Nominato precedentemente, un altro esponente della street art è Keith Haring (USA 1958 – 1990), uno dei maggiori promotori del concetto di arte alla portata di tutti nell’effervescente New York degli anni ‘80, che ha eletto l’intera città a immensa tela da dipingere.

La scelta di realizzare opere nel contesto urbano non è solo un desiderio di esprimersi oltre i tradizionali canali artistici, ma abbraccia il significato simbolico di arte democratica e il successo internazionale delle sue opere ha contribuito alla diffusione delle forme d’arte negli spazi pubblici.

Colorate, semplici e immediate, le sue opere possono essere lette sia a un livello più superficiale come immagini giocose e infantili, sia a un livello ulteriore di significati più profondi che sfruttano un umorismo graffiante, puntando alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica verso alcuni temi sociali molto delicati.

Oltre a essere un artista acclamatissimo, Haring è stato anche imprenditore di sé stesso con la creazione di un brand di felpe, magliette e gadget proposte presso il suo Pop Shop di New York, che lo ha ulteriormente spinto verso una visibilità a livello globale.

Keith Haring
Keith Haring, “Ignorance = Fear”, 1989
Litografia
Keith Haring Andy Mouse
Keith Haring, « Andy Mouse », 1986
Serigrafia

Provocatorio e accattivante, anche Christopher Wool (Chicago 1955) si è sempre concentrato sull’immediatezza e sull’ironia dei doppi sensi, interessandosi in modo particolare alla rappresentazione visiva della lingua ricorrendo a diversi stili e utilizzando diversi medium quali la serigrafia, lo stencil, la vernice spray e la pittura.

Le sue opere composte da grandi lettere nere su fondo bianco mirano a una riflessione sulle tensioni attuali della società e diventano un mezzo per una critica all’estetica della rappresentazione artistica tradizionale: i giochi di parole taglienti, le frasi ironiche e i doppi sensi sono una parodia degli archetipi della pittura accademica.

Wool inizia a lavorare su tele composte da parole e frasi negli anni ’80, periodo in cui il movimento concettuale boicotta la pittura e una nuova generazione di artisti – tra cui Jean-Michael Basquiat e Richard Prince – si impone sulla scena internazionale.

L’artista ha inoltre subìto una forte influenza da parte dell’action painting di Jackson Pollock per quanto riguarda la pratica processuale della creazione delle opere, ma durante gli anni ’90 elegge la serigrafia come tecnica preferita, che utilizza tutt’ora. Lo stile disinvolto e fortemente intuitivo si riflette sulla tela in sbavature, sovrastampe e “imperfezioni” che concorrono a rendere le sue opere uniche.

In una delle sue serie più note, “Black Book Paintings” (1989-1990), le parole sono suddivise verticalmente su tre livelli e il concetto, pur rimanendo comprensibile nella sua totalità, si arricchisce di secondi significati.

Christopher Wool Assassin
Christopher Wool, “Assassin”, 1989
Serigrafia
Christopher Wool If You
Christopher Wool, “If You”, 1992
Smalto su alluminio
Christopher Wool
Christopher Wool, “Untitled”, 2005
Smalto su alluminio

Ha riflettuto sul linguaggio e sui concetti anche Richard Prince (Panama 1949), pittore e fotografo che a partire dal 1977 si afferma come uno dei pionieri dell’appropriazione nell’arte contemporanea e il suo rimaneggiamento più celebre è la famosa serie “Cowboys” (1980-1992), nella quale ha ri-fotografato la campagna pubblicitaria di una nota marca di sigarette. La controversa operazione concettuale, fortemente ironica, è una critica verso lo stile di vita americano e il potere che le immagini pubblicitarie hanno sulla mente umana. Così come le infermiere della serie “Nurse” (2003), tratte da copertine di romanzi economici di serie C, hanno qualcosa di seducente ma anche di molto inquietante.

Richard Prince ha quindi sempre provocato polemiche su questioni relative alla proprietà intellettuale e anche la recente serie “New Portraits” (2015), in cui ogni pezzo è un’immagine presa da Instagram, indaga i problemi odierni legati alla privacy e al controllo che abbiamo su noi stessi e sulle informazioni che consapevolmente mettiamo in rete.

Questi scatti, presi in prestito da alcuni dei suoi followers, ingigantiti e rivenduti a cifre che si aggirano intorno ai 100.000$ hanno creato malcontenti sfociati in cause legali e la cosa divertente è che non è la prima volta che l’artista finisce nei guai per violazione del diritto d’autore, come ad esempio già nel 2013 la pratica del ready-made l’aveva portato in tribunale contro il fotografo Patrick Cariou, causa poi vinta da Prince.

Ma non finisce qui: anche di recente ha avuto problemi con due fotografi professionisti, Dennis Morris e Donald Graham, nonché con la sua ex galleria Gagosian, ma in questo caso i motivi della rottura non sono noti.

Le opere più divertenti e scanzonate restano le sue barzellette, che a partire dalla metà degli anni ’80 hanno sfidato i canoni tradizionali della pittura dell’epoca, giocando sull’idea di creare un’opera d’arte che è in realtà la rappresentazione di uno scherzo. Le sue battute trasposte su tele dai colori accesi e allegri sono però molto più di frasi spensierate, in quanto rivelano tensioni spesso sepolte sotto la superficie delle interazioni sociali.

Queste frasi, dalla resa quasi pubblicitaria e didascalica, fanno parte di una più ampia ricerca dell’artista, che mira a ridefinire i concetti di paternità e di aura dell’opera d’arte tramite un processo di appropriazione di immagini tratte dai mass-media, dalle pubblicità e dall’intrattenimento tipico degli anni ‘70.

Prince utilizza diversi medium come disegni, installazioni, dipinti e fotografie che mettono in luce come le icone moderne e più in generale anche l’identità americana siano state studiate appositamente per incoraggiare il consumismo.

Richard Prince
Richard Prince, «Untitled», 1995
Acrilico e inchiostro serigrafico su tela
Richard Prince
Richard Prince, “Untitled (Fireman joke)», 1987
Acrilico su tela

Invece George Condo (USA 1957) utilizza un linguaggio fantasioso che rende omaggio alla ritrattistica tradizionale dei grandi maestri europei del passato, rielaborati e mescolati a icone della cultura americana contemporanea come personaggi dei fumetti e dei cartoni animati: la fusione tra i due canoni estetici crea uno specchio dei costumi sociali contemporanei.

È a partire dagli anni ’80 che Condo inizia a inserire nei suoi lavori un mix di umorismo, ironia e venerazione verso artisti come Rembrandt, Goya, Caravaggio, Mirò, Picasso – abbracciando l’intero spettro dell’arte europea e americana.

Lo stile eclettico dell’artista è caratterizzato da figure dinamiche, colori vivaci che incorporano elementi surreali ed espressionisti, dalla Pop Art ai personaggi Disney: nascono così i dipinti grotteschi popolati da personaggi bizzarri caratterizzati da occhi sporgenti, corpi astratti, guance prominenti e bocche mordaci che riflettono l’isteria e le paranoie della società odierna.

L’artista ha coniato il termine “Realismo artificiale” per descrivere il suo lavoro, che opera una scomposizione della realtà poi ricostruita secondo l’ordine personale dell’autore, una sorta di cubismo psicologico che mira a descrivere i diversi stati d’animo dei suoi personaggi. Il riferimento a Picasso non è casuale: a 13 anni George Condo vede un’opera dell’artista spagnolo pubblicata su un giornale e da quel momento diventerà una delle sue maggiori fonti d’ispirazione.

In questi ultimi anni l’artista americano è molto apprezzato dal mercato che diverte i grandi intenditori dell’arte, diventando uno degli artisti più richiesti anche per quanto riguarda gli investimenti.

George Condo
George Condo, “Little Ricky”, 2004
Olio su tela
George Condo
George Condo, immagine da Art Basel 2019

Un altro artista che rivisita icone dell’arte è Francesco Vezzoli (Brescia 1971), uno degli artisti contemporanei italiani più affermati, esplora il potere della cultura popolare utilizzando diversi mezzi espressivi tra cui il ricamo, la scultura, la videoarte e la performance.

Lo studio del linguaggio mediatico e televisivo lo porta a un’analisi degli stereotipi della cultura contemporanea e dell’influenza della pubblicità sulla mente umana, ricerca che si traduce in lavori che si muovono tra citazioni storiche e cultura figurativa contemporanea. Performer, lui stesso diventa soggetto delle sue opere, impadronendosi di immagini già conosciute.

Emulando gli schemi tipici del cinema e della pubblicità, Vezzoli affronta l’ambiguità che ci impedisce di distinguere la realtà dalla finzione in un’analisi dei miti e delle icone della cultura popolare.

Questi temi vengono affrontati sia in cortometraggi che mettono in scena fantomatiche produzioni televisive, sia in ritratti di personaggi famosi – spesso in bianco e nero – che piangono lacrime dorate ricamate all’uncinetto: il seducente linguaggio della pubblicità lascia il posto a una contemplazione profonda dei sentimenti e delle ossessioni che colpiscono l’animo umano.

Vezzoli ha inoltre rivisitato l’opera “Forme uniche nella continuità dello spazio” di Boccioni, aggiungendo un tacco 12 alla famosa scultura futurista simbolo del progresso e del movimento. Il bronzo “Unique forms of continuity in high heels (after Umberto Boccioni)” del 2012 mira a ridicolizzare il fascismo tramite una satira tagliente e nello stesso tempo aggiunge un tocco di glamour al Futurismo.

Francesco Vezzoli
Francesco Vezzoli,
“Unique forms of continuity in high heels (after Umberto Boccioni)”, 2012
Bronzo
Francesco Vezzoli
Francesco Vezzoli, “Cassandra Crying”, 2016
Stampa su tela con ricamo metallico

Ha fatto di irriverenza e ironicità la sua cifra stilistica anche Maurizio Cattelan (Padova 1960), che ha spesso suscitato e volutamente cercato dibattiti e polemiche.

Le sue opere includono sculture, performance e azioni provocatorie come nel 1997, quando invitato alla 47ª Biennale di Venezia presenta l’opera “Turisti”, 200 piccioni imbalsamati posti sulle travi del padiglione italiano. Nel visitare lo spazio prima della manifestazione Cattelan aveva notato l’abbandono e il degrado imperversanti uniti alla presenza di molti piccioni: decide quindi di “lasciare tutto come l’ha trovato”.

Una delle sue opere più ironiche è forse il suo autoritratto che sbuca dal pavimento (presentata per la prima volta nel 2001 al Museo Boymans-van Beuningen di Rotterdam) meravigliato di trovarsi in una sala espositiva.

L’installazione era stata contesissima durante un’asta Sotheby’s a maggio 2010 e l’aggiudicazione a 7,92 milioni di $ (diritti esclusi) a un acquirente rimasto nell’ombra gli aveva valso il titolo di artista italiano vivente più caro.

Sicuramente scandali e provocazioni hanno avuto un forte peso nella carriera artistica di Maurizio Cattelan come quando nel 2004 ha esposto tre bimbi-manichini impiccati alla quercia di Piazza XXIV Maggio a Milano – installazione volta a sensibilizzare l’opinione pubblica verso il problema delle violenze domestiche – ritenuta offensiva della sensibilità e del decoro pubblici. Senz’altro è una forma di comunicazione molto spinta che richiede capacità interpretative non banali.

Ha fatto molto parlare di sè anche nel 2010 con la provocatoria “L.O.V.E.” – sigla di Libertà, Odio, Vendetta, Eternità – una scultura in marmo di Carrara di 11 metri che campeggia in Piazza Affari a Milano di fronte alla sede della Borsa, edificio costruito durante il fascismo. L’opera raffigura una mano intenta nel saluto fascista ma con tutte le dita mozzate eccetto il dito medio, volgare gesto di irriverenza contro il fascismo e il mondo della finanza.

Oltre a quelle citate, Cattelan ha creato un notevole corpus di opere volte a far riflettere l’opinione pubblica su temi che ci riguardano tutti da vicino.

Proprio recentemente, avrete sentito parlare di un’altra sua opera, un water d’oro di 18 carati intitolata “America” rubata a pochi giorni dall’inaugurazione della sua nuova retrospettiva a Blenheim Palace, dimora inglese dove è nato Winston Churchill.

Di sicuro il furto ha accresciuto e non di poco l’aura già particolare che circondava quest’opera interattiva – una satira sull’eccessiva ricchezza ostentata dagli Stati Uniti – realizzata nel 2016 e installata al Guggenheim di New York per quasi un anno, durante il quale circa 100 mila persone hanno potuto ammirarla e utilizzarla.

La scultura aveva già fatto parlare di sé quando Nancy Spector, curatrice della mostra, l’aveva proposta alla Casa Bianca al posto del Van Gogh richiesto in prestito ma ritenuto troppo delicato per essere spostato.

Il water d’oro stimato circa un milione di sterline, era già stato ironicamente collegato a Trump – che tra l’altro ha un’adorazione per il prezioso materiale – anche se il richiamo al Presidente è sempre stato smentito dall’artista italiano.

Nelle motivazioni per la particolare scelta la Spector ha spiegato come “il lavoro incanala perfettamente la storia delle avanguardie artistiche del 20º secolo”, ma il sarcasmo era fin troppo evidente.

L’opera sarebbe stata ispirata alle disuguaglianze di reddito e al ciclo iniziato con la fontana di Duchamp (1917) e proseguito con la “Merda d’artista” di Piero Manzoni del 1961.

“America” si pone come un supremo gesto di disprezzo per il denaro e con il suo titolo aggiunge all’ironia duchampiana ulteriori interrogativi, anche per la sua data di nascita che – quasi – coincide con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca.

Intellettualmente, l’opera di Cattelan implica diversi significati, quasi unendo concetti e valenze delle due opere citate: mentre “Fountain” era stata considerata senza valore economico, tanto che l’amico di Duchamp Alfred Stieglitz l’aveva buttata via, la “Merda d’artista” aveva il valore del peso dell’oro.

È quindi spontaneo chiedersi perché l’opera sia stata rubata: meraviglia concettuale o 103 kg d’oro?

 


Maurizio Cattelan, “Senza titolo”, 2001
Tecnica mista

Maurizio Cattelan, “America”, 2016
Oro
Maurizio Cattelan
Maurizio Cattelan, “L.O.V.E.”, 2010
Marmo di Carrara

Come avete visto l’ironia e la leggerezza – a volte solo apparenti – non mancano nel mondo dell’arte contemporanea e nel mondo di oggi gli artisti hanno eletto sempre di più la performance e l’installazione come media ideali in quanto si prestano perfettamente a creazioni di ogni sorta.

Non sempre il senso dell’umorismo è sinonimo di leggerezza, spesso il significato di molte opere è da ricercare oltre la superficie.

Ci sono ancora molti artisti di cui vale la pena parlarvi, li scoprirete presto nel prossimo articolo!

A presto!

 
Le sfumature dell’arcobaleno dell’arte sono infinite: scegliete la vostra preferita!

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Avete il senso dell’umorismo?

 

-Parte I-

Il senso dell’umorismo è segno di intelligenza. È l’arte di coloro che modellano ciò che vedono con un’elegante satira per farci riflettere su concetti profondi e tematiche esistenziali, proponendoci una realtà originale e meno rigida.
Utilizzare il senso dell’umorismo in modo sofisticato e creativo è di sicuro un’arte e il connubio tra arte e umorismo rende la nostra vita più divertente e piacevole.

Tutto è cominciato con Marcel Duchamp e Piero Manzoni, illustri precursori di pensiero ironico e idee rivoluzionarie che sono stati di ispirazione per le generazioni successive di artisti contemporanei.

Iniziatore del Dadaismo, figura di spicco del Surrealismo e precursore dell’Arte Concettuale, Marcel Duchamp (Francia 1887 – 1968) ha sfidato le convenzioni sociali e cambiato il concetto di arte elevando oggetti di uso comune a vere e proprie opere. Le sue irriverenti provocazioni hanno influenzato l’arte d’avanguardia e anticipato molti movimenti artistici del secondo dopoguerra.
“Roue de bicyclette”, il primo ready made, risale al 1913 e il suo destino è quello di cambiare per sempre il corso della storia dell’arte. La decontestualizzazione di elementi comuni provoca un effetto di straniamento e uno stravolgimento concettuale: la ruota della bicicletta ha perso la sua funzione e lo sgabello su cui è posta è inutilizzabile.
Il più celebre intervento resterà “Fountain” (1917) orinatoio maschile con tanto di firma d’artista, opera scandalosa che all’epoca aveva suscitato grande scalpore e che ha insito nel titolo tutta l’ironia di un genio del secolo scorso.

 

Marcel Duchamp, “Fountain”, 1917 Orinatoio maschile

Marcel Duchamp, “Fountain”, 1917
Orinatoio maschile

 

In quanto a provocazioni, dopo il famoso orinatoio c’è “Merda d’artista” (1961) di Piero Manzoni (Soncino 1933 – Milano 1963) che è il più classico esempio di scandalo artistico, un’opera che aveva addirittura provocato un’interrogazione parlamentare.
Oltre alla pura coincidenza “tematica”, le due opere citate sono un grido di protesta, sintomo di una forte reazione contro le regole e il sistema imperante dell’epoca.
L’arte, che fino ad allora era stata sì portatrice di significati ma principalmente decorativa e con una spiccata funzione estetica, ora non si preoccupa più di appagare la vista ma di veicolare concetti e idee, anche di contestazione.
Manzoni ridefinisce i confini stessi dell’opera d’arte con una libertà creativa assolutamente innovativa per l’epoca, affermandosi come uno dei protagonisti dell’avanguardia internazionale e come uno dei precursori dell’Arte Concettuale. Fa parte del movimento informale dei nucleari dal 1957 al 1959 e fonda la rivista Azimuth con Enrico Castellani (1959-60), con cui apre anche la galleria Azimut a Milano.
In “Merda d’artista”, oltre all’ironia dell’etichetta che riprende la dicitura di un qualsiasi cibo in scatola, la provocazione concettuale prosegue nel prezzo dato all’opera, equivalente a quello dell’oro al grammo: in questo modo Manzoni associa due materiali totalmente in antitesi tra loro ma entrambi carichi di significati.
La polemica si riferisce anche al mercato dell’arte e al valore estetico arbitrario conferito a ciò che viene ritenuto un’opera d’arte e affronta inoltre la questione tra contenuto e forma.
Come per quest’opera, altri suoi lavori presuppongono l’occultamento dell’opera d’arte, come nel caso delle “Linee”, realizzate tra il 1959 e il 1961 che consistono in una linea tracciata su un foglio di carta e la loro esistenza e lunghezza è certificata solamente dall’etichetta esterna del cilindro che le contiene.
Sempre connotata da una forte ironia e presa di posizione, la sua produzione ha abbracciato molteplici forme d’arte: si è confrontato con l’happening e la performance quando ha marchiato con le proprie impronte digitali uova sode da offrire agli spettatori in “Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte”.
Ha autografato i corpi delle modelle – “Sculture viventi” (1961) – munite di regolare certificato e bolla di accompagnamento, anticipando la body art e ha inoltre creato la scultura più grande del mondo – primato di fatto imbattibile – collocando una sorta di base / piedistallo con una scritta al contrario che recita: “Socle du monde” (1961).
Oggi gli “Achrome”, serie iniziata nel 1957, sono di fatto le sue opere più quotate. Con i suoi monocromi Manzoni supera la pittura e limita il suo intervento personale: la tela imbevuta di caolino viene lasciata asciugare lasciando che il materiale si modifichi da solo nel corso del tempo.
La portata rivoluzionaria di un genio scomparso precocemente oggi è facile da intuire, ma negli anni ‘50 e ‘60 era forse troppo in anticipo sui tempi per ricevere il riconoscimento che gli era dovuto.
Hauser & Wirth gli ha dedicato una retrospettiva – “Piero Manzoni: Lines” – in corso fino al 26 luglio nella sede di New York dove sono in mostra 70 “Achrome” e 12 “Linee”.

 

Piero Manzoni, “Merda d’artista”, 1961 Scatoletta di lattina, carta stampata, feci umane o gesso?

Piero Manzoni, “Merda d’artista”, 1961
Scatola di latta, carta stampata

 

Altrettanto provocatorio e dotato di sense of humor Salvador Dalì (Spagna 1904 – 1989), il più grande esponente del Surrealismo, celebre anche per la personalità eccentrica e bizzarra che si è riversata in opere oniriche popolate da animali e oggetti deformati e inquietanti, frutto del subconscio dell’artista.
Le sue prime opere subiscono l’influenza del cubismo, del futurismo e delle opere di De Chirico, alle quali aggiungerà forti richiami alla psicanalisi freudiana. Eclettico e geniale, Dalì si è espresso in svariati ambiti, tra cui il cinema, la fotografia e la scultura.
“La persistenza della memoria” (1931) è l’opera surrealista per antonomasia che con la presenza dei celebri orologi molli indaga e mette in discussione la pretesa di misurare il tempo in modo oggettivo e assoluto.
Con il regista Luis Buñuel dà vita a cortometraggi stranianti e all’avanguardia come “Un chien andalou” (1927), prima di una serie di collaborazioni cinematografiche e teatrali d’eccellenza: collaborerà infatti anche con Alfred Hitchock, Luchino Visconti e Walt Disney.
Il suo stile anticonvenzionale, la sua passione per il lusso e l’eccesso lo hanno reso una celebrità universale, tra feste indimenticabili e felini selvatici tenuti come animali domestici.
La sua stravaganza è stata spesso immortalata da Man Ray ma la leggerezza e l’ironia del genio spagnolo sono riassunti in una fotografia scattata da Philippe Halsman nel 1948: “Dalì Atomicus” – titolo che fa riferimento all’esplosione nucleare di Hiroshima e Nagasaki del 1945 – è un’esplosione vera e propria che immortala gatti che volano, secchiate d’acqua e l’artista sospeso a mezz’aria intento a dipingere.
Al Grimaldi Forum di Montecarlo è in corso una rassegna visitabile fino all’8 settembre che raccoglie circa 100 opere che coprono tutta la sua carriera artistica, dal 1910 al 1983.

 

Philippe Halsman, “Dalì Atomicus”

Philippe Halsman, “Dalì Atomicus”, 1948
Stampa alla gelatina d’argento

 

Il trend of humor vero e proprio nel mondo dell’arte si sviluppa più avanti con il movimento della Pop Art, nato in Inghilterra e negli Stati Uniti tra la fine del 1950 e l’inizio del 1960. Viene rinnovato il concetto di arte stessa, rendendola più leggera e ironica grazie alla comparsa di colori piatti e vivaci, al riferimento ad icone del cinema e dei fumetti. La Pop Art – incisiva e immediata – esprime al meglio l’immaginario collettivo e la società americana dell’epoca, prendendo in prestito il linguaggio dei mass media e della pubblicità.
Lo spunto proviene quindi dalla vita quotidiana e di conseguenza anche i prodotti in serie di largo consumo diventano vere e proprie icone.
Impossibile non pensare alle lattine di zuppa Campbell o alle bottiglie di Coca Cola riprodotte nelle serigrafie da Andy Warhol (USA 1928 – 1987), secondo il quale anche l’arte va consumata come ogni altro prodotto.
La riproducibilità e la ripetizione ossessiva caratterizzano dunque le sue opere che, come i prodotti di massa – associati al consumismo – rispecchiano la società americana. Esponente di spicco della Pop Art e personalità eccentrica, anche Warhol ha fatto parlare di sé anche per il suo stile di vita fuori dagli schemi.

 

Andy Warhol

Andy Warhol, “Campbell’s Soup II“, 1969
Serigrafia su carta

 

Il tema della riproducibilità dell’opera d’arte è stato al centro anche della ricerca di Roy Lichtenstein (USA 1923 – 1997), altro grande esponente del movimento: la fonte d’ispirazione – i fumetti – si traduce anche in un interesse verso i processi meccanici. Lichtenstein attua nelle sue opere il processo inverso, ovvero partendo da una copia per antonomasia (una pagina stampata) crea un originale, rivoluzionando il linguaggio espressivo dell’epoca. Lichtenstein durante la sua carriera ha esplorato diverse tematiche, alcune delle quali tipicamente americane: dal Far West alle espressioni artistiche degli indiani, dal boom economico ai paesaggi orientali.

 

Roy Lichtenstein

Roy Lichtenstein, “In the car“, 1963
Olio su tela

 

Un altro grande interprete della Pop Art è Tom Wesselmann (USA 1931 – 2004), famoso per i suoi “Great American Nudes”. Le sue figure femminili stilizzate e seducenti introducono l’erotismo nel movimento, in un’epoca in cui il nudo di donna inizia a diventare un prodotto pubblicitario che non fa più scalpore.
Nel 1970 Wesselmann espone “Bedroom Tit Box”, scatola che riunisce oggetti in legno dipinti. Quello che colpisce è la presenza di un seno tra un posacenere e una boccetta di profumo: a partire da questa still life l’artista inizierà a raffigurare dettagli di corpi femminili.
In un’intervista ha dichiarato: “La pittura, il sesso e l’umorismo sono le cose più importanti della mia vita”.

 

Tom Wesselmann

Tom Wesselmann, “Smoker #3 (Mouth #17)”, 1968
Olio su tela

 

Jeff Koons – personalità eccentrica e “enfant terrible” dell’arte contemporanea – ha spesso fatto parlare di sé per le sue scelte controverse.
Le sue primissime opere risalgono alla fine degli anni ‘70 ma è nel 1980 che Jeff Koons fa il suo debutto nel mondo dell’arte: espone presso il New Museum l’installazione “The New” in cui mette in scena alcuni aspirapolvere, prodotti di largo consumo nei quali è molto evidente l’influenza di Andy Warhol.
Il tema del consumismo e dell’appagamento dei sensi comprendono anche la sfera sessuale e le sue sculture pornografiche sicuramente richiedono una grande apertura mentale e un forte sense of humor, anche solo per concepire il messaggio.
Alcune di queste sono attualmente in mostra al Museo Jumex di Città del Messico fino al 29 settembre nella rassegna curata da Massimiliano Gioni “Apariencia Desnuda”, e sono accostate alle opere di Duchamp in una inedita rassegna che mette in luce le affinità concettuali tra i due giganti dell’arte. Hanno messo in discussione la funzione degli oggetti e in entrambi è spesso presente un forte erotismo, rilevato anche in oggetti di uso quotidiano: tema evidente nell’opera voyeristica “La mariée mise à nu par ses célibataires, même, Le grand verre” (1915 – 23) di Duchamp, che considerava il desiderio fonte di creatività, come testimoniato anche dal suo alter ego Rrose Sélavy. Erotismo ricorrente anche nei lavori di Koons, che ha dato scandalo con la serie “Made in Heaven” del 1991 realizzata con la moglie e porno star Ilona Staller.
È la prima grande mostra antologica presentata in Sud America per entrambi gli artisti e le 80 opere esposte chiariscono i punti di contatto sia nella sfida alle convenzioni sia nello stravolgimento della funzione di oggetti comuni.
Jeff Koons è l’artista per eccellenza che ha ripreso e trasformato l’incanto e il desiderio infantile verso i giochi in un feticcio per adulti che rispecchia l’individualità estrema della società moderna nascosta dietro a un banale giocattolo.
Probabilmente sta ancora festeggiando il recentissimo record in asta che l’ha – di nuovo – incoronato l’artista vivente più pagato al mondo. “Rabbit”, scultura in acciaio inox del 1986 è stata venduta lo scorso maggio a 91,1 milione di $ ad un’asta Christie’s a New York.

 

Jeff Koons

Jeff Koons, “Balloon Dog (Orange)“, 1994-2000
Acciaio inossidabile lucidato a specchio con rivestimento di colore trasparente

 

Damien Hirst (Bristol 1965), uno dei fondatori di Frieze, è un altro “enfant terrible” dell’arte contemporanea: uno dei suoi obiettivi è quello di stupire e provocare uno shock negli spettatori e nell’opinione pubblica.
Hirst non ricerca più la manualità dell’autore dell’opera d’arte ma cerca di trasmettere idee e di creare quasi un marchio, come prima di lui aveva fatto Andy Warhol. Di lui riprende l’utilizzo di oggetti quotidiani e da Duchamp il ready made, ma li modella e trasforma trasponendoli su esseri viventi.
Il capofila dei Young British Artists si è sempre concentrato sulle riflessioni attorno al tema della morte e si è fatto notare in special modo per le opere che hanno visto protagonisti animali in formaldeide o per il celebre teschio ricoperto di diamanti “For the love of God”, perfetto connubio di ironia e macabro, oggetto del desiderio e repulsione.
L’esorcizzazione della morte attraverso la medicina ha preso forma in opere che riproducono teche specchianti di medicinali con le pillole esposte come se fossero pietre preziose, a significare un’ammirazione quasi sacrale verso i rimedi contro la morte ma anche una riflessione sulle dipendenze odierne.
Tra queste il fumo ha un posto di rilievo, anche per il suo stretto legame con la morte, e non a caso Hirst gli ha dedicato più di un’opera: tra queste “Party time” (1995) è un posacenere gigante riempito con mozziconi e pacchetti vuoti, quasi una piscina in cui buttarsi.

 

Damien Hirst

Damien Hirst, “Lullaby Summer”, dettaglio, 2002
Vetro, acciaio inossidabile, nichel, resina fusa, intonaco colorato e pillole verniciate con trasferimento a secco

 

Sulla stretta simbiosi tra arte e vita si è sempre mossa Yayoi Kusama (Giappone 1929), che vive volontariamente in un manicomio di Tokyo da circa 40 anni.
Le sue opere si muovono tra pazzia, divertimento e genialità, grazie al loro grande potere di interazione con lo spettatore.
Ha sofferto di allucinazioni fin da giovane, visioni che ha trasposto nelle sue opere regalando agli spettatori la sua visione del mondo, ricca di suggestioni. Non solo zucche e pois ripetuti ossessivamente ma anche installazioni immersive come le “Infinity Mirrors rooms” – stanze ricoperte di specchi che giocano con i mille rimandi tra zucche, pois e l’immagine riflessa degli spettatori.
Ripetuti ossessivamente i pois ricoprono l’arredamento di intere stanze o vanno a ornare tentacoli che spuntano dal pavimento e dal soffitto in installazioni che piacciono a tutti.

 

Yayoi Kusama

Yayoi Kusama, “Infinity Mirrored Room – All the Eternal Love I Have for the Pumpkins”, 2016
Legno, specchi, plastica, acrilico e luci a led

 

Un altro artista che ci coinvolge in modo divertente giocando con il senso dell’orientamento è Carsten Höller (Bruxelles 1961), artista che crea spesso opere ludiche il cui scopo è attivare negli spettatori tutti i 5 sensi innescando sensazioni adrenaliniche ed emozioni legate ai giochi d’infanzia, come nel caso degli scivoli.
L’artista gioca con lo spaesamento ed esplora le contraddizioni dentro di noi, come nel caso dell’opera “Upside Down Mushroom” alla Fondazione Prada di Milano, che mette in atto un rovesciamento della realtà.

 

Carsten Höller, “Upside Down Mushroom Room”, 2000
Fondazione Prada, Milano

 

Anche Paul McCarthy (USA 1945) gioca con sensi e con il subconscio dello spettatore con opere provocatorie, inquietanti, politicamente impegnate, che mirano a una critica del consumismo e a mettere a nudo le nostre paure e nevrosi, smascherando gli inganni che si celano dietro alla promessa del sogno americano.
Noto per la sua vasta e varia produzione che comprende performance, fotografia, scultura, film, installazioni multimediali, disegno e pittura; agli esordi della sua carriera artistica cerca di rompere i limiti della pittura usando “materiali” insoliti come fluidi corporei e cibo.
McCarthy si appropria di icone della cultura popolare e dell’infanzia come gli gnomi, Heidi, Babbo Natale, Barbie riformulandoli in versione violenta e giocando con il subconscio dello spettatore.
Le immagini brutali, esplicite e spesso ripetitive provocano un sovraccarico sensoriale suscitando sentimenti di disagio e disgusto: l’artista supera qualsiasi tabù e rompe tutte le regole sociali.
Dai primi anni ‘80 McCarthy sviluppa una serie di collaborazioni con Mike Kelley, altro artista legato alla controcultura: la sinergia tra i due porta alla creazione di “Heidi”, video del 1992 che mette in scena i risvolti inquietanti del famoso racconto per bambini.

 

Paul McCarthy

Paul McCarthy, “White Snow” Dwarf, Bashful”, 2016
Silicone, fibra di vetro, acciaio

 

Come McCarthy, anche Mike Kelley (Detroit 1954 – Los Angeles 2012) si è sempre interessato alla cultura di massa americana esaminandola a fondo per far emergere le contraddizioni nascoste.
Ha esplorato diversi temi come le relazioni tra diverse classi sociali, la sessualità, la religione, i ricordi repressi e la politica, apportando a questi argomenti una critica incisiva e un grande umorismo spesso autoironico.
Noto soprattutto per il suo lavoro con oggetti che evocano i ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza, come pupazzi di peluche, bambole e fotografie scolastiche, nel corso della sua carriera ha esplorato qualsiasi tipo di medium: disegno, scultura, musica, video, spettacoli, fotografia e pittura.
Nel progetto “Educational Complex” (1995) l’artista analizza i traumi adolescenziali e critica le rigide regole della società e le imposizioni educative alle quali siamo costretti a sottostare.
Tra le sue opere più note “Deodorized Central Mass with Satellites” (1991-99), coloratissimi peluche cuciti insieme che formano sculture arcobaleno sospese che ad un primo sguardo evocano la magia dell’infanzia.

 

Mike Kelley

Mike Kelley, “Deodorized Central Mass with Satellites“, 1991-1999
Installazione composta da animali di peluche cuciti su telai di legno e rete metallica, materiale da imballaggio in polistirolo, deodoranti in fibra di vetro, lacca per auto, funi di nylon

 

Claes Oldenburg (Stoccolma 1929) si è concentrato sul tema del consumismo e sulle abitudini alimentari odierne ed è famoso in tutto il mondo per opere monumentali e divertenti che riprendono un immaginario tipicamente americano: dal volano per il budminton ai birilli da bowling, dal gigante hamburger all’enorme cono gelato precipitato su un grattacielo di Colonia.
I suoi lavori sono spesso fortemente legati al territorio dove l’opera trova collocazione, come testimonia “Ago, filo e nodo” (2000) realizzato in collaborazione con Coosje van Bruggen in Piazzale Cadorna a Milano, omaggio al mondo della moda e chiaro riferimento alle linee metropolitane nei colori utilizzati per il filo.

 

Claes Oldenburg,

Claes Oldenburg, “Dropped Cone”, Neumarkt Galerie Colonia, Germania, 2001
Acciai inossidabili e zincati, plastica rinforzata con fibre, legno verniciato

 

Le sfumature dell’arcobaleno dell’arte sono infinite: scegliete la vostra preferita!

 

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